You Can’t Be a Racist and Love Wine
A reflection on wine, diversity, and the myth of cultural purity. True love for wine — or any passion — requires respect for difference. Racism has no place at the table.
The Table That Became a Map
Yesterday was Easter, and I had a few friends over. We ate, we laughed, we opened bottles. As the afternoon folded into evening, the corks began to pile up — not just on the table, but in my palm, as I started absentmindedly collecting them. A small ritual, maybe. A way of holding onto the night.
Later, when the last guest left and I was tidying up, I looked at them — six corks lined up like a row of quiet witnesses. France. Italy. South Africa. North America. I smiled. Without planning it, our table had become a map. Not a map of borders, but of connections. Each cork carried with it a place, a people, a climate, a history — some joyful, some painful, all entangled in that shared bottle we passed around like communion.
It hit me: If you truly love wine, you cannot be a racist.
Wine, like every true passion, demands humility. Curiosity. A willingness to listen — not just to flavors, but to the stories behind them. And those stories are never monocultural. They are braided, like vines climbing across continents.
Wine does not recognize purity. It is hybrid by nature — vines grafted from elsewhere, soil influenced by histories of migration, climates shaped by global forces. The grapes in your glass have likely traveled more than you. Their roots may be in European monasteries, but their ancestors were carried by Phoenician traders, Persian farmers, North African stewards of land and sun. Today, wine is harvested by hands that speak Quechua, Wolof, Tagalog, Xhosa, Romanian, Tamil.
So when someone romanticizes wine as a symbol of “Western civilization” or “European culture” — as many far-right movements and soft-focus nationalists do — they’re not just ignorant.
They’re drinking from a glass they don’t understand.
The Gatekeeping of Taste
Let’s be clear: racism has no place in wine. It cannot coexist with the reverence wine requires. To love wine is to love plurality, encounter, and exchange. To cherish its textures, contradictions, and the labor of those who make it possible — often invisibilized, underpaid, racialized workers.
And yet, wine culture continues to be dominated by a particular type of aficionados: the rich, straight, male connoisseur who treats wine as a status symbol, a performance of taste, a language designed to exclude. He is the one with the cellar. The verticals. The opinions. He’s also the one least likely to think about the Black and Brown laborers who pick the grapes, or the Indigenous land from which those grapes rise.
Back to the Roots
This contradiction runs deep. Wine is rooted in the earth, but is dressed up in the airs of elitism. It is made by humble people, but consumed in spaces that still feel exclusionary. And unless we reckon with this — with wine’s colonial history, its racialized labor, and its gatekeeping tendencies — we risk loving it falsely.
Loving wine should not mean romanticizing French châteaux built on the profits of empire. It should mean asking:
Who harvested this grape? Who owns this land? Whose story am I drinking?
It means learning about Algerian vineyards once exploited by French colonizers, and the suppression of local traditions in favor of European “standards.” It means supporting winemakers who are reclaiming space: Black-owned wineries, Indigenous grape growers, queer collectives, immigrant-led vineyards.
A Table for Everyone
Wine is a table. A long one, with mismatched chairs, loud voices, accidental spillages, passed plates, clinking glasses. A table where no one should feel unwelcome because of their skin, their accent, their body, or their passport.
Yesterday, that’s what I felt. Around my table. Six corks. One celebration. Many stories.
You can’t be a racist and love wine.
Not really. Not deeply. Not with respect.
Because wine — like every honest passion — asks you to love difference. To taste it, to learn from it, and to raise your glass to it
This isn’t just about wine.
It’s about how we love. What we open ourselves to. What we allow ourselves to learn.
Because you can’t love the music of another place while hating the people who make it.
You can’t celebrate foreign cinema while fearing migrants.
You can’t sip wine from four continents while clinging to borders.
If you truly love something, you can’t be a racist.
Non Puoi Essere Razzista e Amare il Vino, la tavola è una mappa
Ieri era Pasqua, e ho invitato qualche amico a casa. Abbiamo mangiato, riso, aperto bottiglie, ascoltato tanta bella musica. Col passare delle ore, i tappi hanno iniziato ad accumularsi — non solo sul tavolo, ma anche nel palmo della mia mano, mentre ci giocavo quasi senza pensarci. Un piccolo rito, forse. Un modo per trattenere il ricordo di una splendida giornata e del vino che ho bevuto.
Quando l’ultimo ospite è andato via e mi sono messo a riordinare, li ho guardati: sei tappi, allineati come testimoni silenziosi. Francia. Italia. Sudafrica. Nord America. Ho sorriso. Senza pensarci troppo, la nostra tavola era diventata una mappa, non una mappa di confini, ma di connessioni. Ogni tappo portava con sé un luogo, un popolo, un clima, una storia — alcune gioiose, altre dolorose, tutte intrecciate nella bottiglia che ci siamo passati come fosse una comunione - era Pasqua d’altronde.
Mi è venuto in mente:
Se ami davvero il vino, non puoi essere razzista.
Il vino non è mai puro
Il vino, come ogni vera passione, chiede umiltà. Curiosità. La disponibilità ad ascoltare — non solo i sapori, ma le storie che ci stanno dietro. E quelle storie non sono mai monoculturali. Sono intrecciate, come viti che si arrampicano attraverso i continenti. Il vino non conosce la purezza. È ibrido per natura — viti innestate da altri luoghi, suoli modellati da storie di migrazione, climi influenzati da forze globali. L’uva nel tuo bicchiere probabilmente ha viaggiato più di te. Le sue radici possono trovarsi nei monasteri europei, ma i suoi antenati sono stati trasportati da mercanti fenici, agricoltori persiani, custodi nordafricani della terra e del sole. Oggi, il vino è raccolto da mani che parlano quechua, wolof, tagalog, xhosa, rumeno, tamil.
Perciò, quando qualcuno romanticizza il vino come simbolo della “civiltà occidentale” o della “cultura europea” — come fanno tanti movimenti di destra o nazionalismi patinati — non è solo ignorante.
Sta bevendo da un bicchiere che non capisce.
Il gusto non dovrebbe escludere
Diciamolo chiaramente: il razzismo non ha posto nel vino. Non può coesistere con il rispetto che il vino richiede. Amare il vino significa amare la pluralità, l’incontro, lo scambio. Significa onorare le sue contraddizioni, le sue complessità, e il lavoro di chi lo rende possibile — spesso lavoratori invisibilizzati, sottopagati, o discriminati (e nelle campagne piemontesi dove sono cresciuto, se ne vedono tanti.)
Eppure, la cultura del vino è ancora dominata dallo stessa tipologia di utente: l’uomo bianco, ricco, etero, che usa il vino come status symbol, come linguaggio per escludere, per sentirsi migliore dell’altro. È lui ad avere la cantina. Le verticali. Le opinioni. Ed è spesso il meno consapevole del fatto che a raccogliere l’uva siano state mani nere o marroni, o che quel terreno sia stato strappato a popolazioni indigene.
Radici umili, immagine elitaria
Questa contraddizione è profonda. Il vino nasce dalla terra, ma viene imbellettato con un’aura di élitismo. È fatto da persone umili, ma spesso consumato in ambienti che restano escludenti. E se non affrontiamo tutto questo — la storia coloniale del vino, il lavoro razzializzato, i meccanismi di esclusione — rischiamo di amarlo in modo falso.
Amare il vino non significa romanticizzare castelli francesi costruiti sui profitti dell’impero. Significa chiedersi:
Chi ha raccolto quest’uva? A chi appartiene questa terra? Di chi è la storia che sto bevendo?
Significa conoscere le vigne algerine sfruttate dai colonizzatori occidentali, e la soppressione di tradizioni locali in favore di “standard” europei. Significa sostenere chi oggi si riappropria dello spazio: cantine nere, coltivatori indigeni, vignaioli migranti.
Una tavola per tutti
Il vino è una tavola. Una lunga tavola, con sedie spaiate, voci forti, macchie sul lino, piatti che girano, bicchieri che tintinnano. Una tavola dove nessuno dovrebbe sentirsi fuori posto per il colore della pelle, l’accento, il corpo o il passaporto.
Non puoi essere razzista e amare il vino.
Non davvero. Non in profondità. Non con rispetto.
Perché il vino — come ogni passione sincera — ti chiede di amare la differenza. Di assaporarla, imparare da essa, e alzare il bicchiere in suo onore.
E questo non vale solo per il vino.
Vale per come amiamo. Per ciò a cui ci apriamo. Per ciò che scegliamo di conoscere.
Perché non puoi amare la musica di un altro paese e odiare chi la crea.
Non puoi celebrare il cinema straniero e temere i migranti.
Non puoi sorseggiare vino da quattro continenti e restare attaccato ai confini.
Se ami davvero qualcosa, non puoi essere razzista.